Il gioco del vino
Dioniso scoprì che dopo la Grecia c’era una piccola terra, la Lucania, che ben avrebbe accolto la vite con altrettanta cura e ospitalità e che da essa il suo popolo avrebbero ricavato un buon vino. Io da buona lucana ho fatto del vino da anni l’emblema della mia carriera professionale e mi accompagna anche nei miei ricordi d’infanzia.
Da piccola pensavo fosse solo un gioco; arrivava l’autunno e con forbici e cassette si correva in quel vecchio vigneto sito nell’agro di Picerno, dove quella terra e quell’uomo avevano messo tutto il loro impegno e sudore. Prima di quella data, quell’uomo non permetteva a nessuno di entrare in quella vigna, perché nessuno avrebbe messo la sua stessa cura e il suo stesso amore; ma arrivava quel momento in cui tutti potevamo prendere parte a quel gioco, l’autunno con la vendemmia era il mio lascia passare per il vecchio vigneto.
Lui era lì, vigile, ti osservava, non dovevi far male alla vite, lei ti stava dando il suo frutto, “Abbine cura e ti darà sempre il meglio”. Raccolta l’uva si era pronti per dirigersi verso la cantina, mentre lui era rimasto indietro rivolto verso la sua vigna e la guardava come se stesse parlando con lei con il cuore e la ringraziava anche per quell’anno del risultato ottenuto dal loro connubio.
I grappoli così raccolti poi finivano in una macchina infernale che separava i raspi dagli acini e il tutto andava in un grande tino a riposare per giorni e sotto il diretto controllo di lui, l’uomo della vigna, che non perdeva occasione e momento di rimontare con un bastone quell’ammasso di succo e acini spremuti che stavano subendo una lenta e tumultuosa trasformazione, e io a gironzolare intorno per gustare quella bevanda, che sarebbe stata così dolce solo per pochi giorni ancora.
Quell’uomo poi rispolverava il vecchio torchio, uno strano arnese che serviva a separare le bucce dal succo, per ricavare il succo che oramai non era più dolce, ma avevo preso potenza e poteva camminare da solo da bicchiere a bicchiere dopo un ulteriore riposo in un corpo di legno.
Il nostro gioco oramai era finito e anche il nostro premio, il mosto era diventato vino e andava a completarsi di corpo e struttura in una botte di legno, prima che poi diventasse la gratificazione della tavola della casa di quell’uomo.
Amava invitare ogni passante a bere un bicchiere di quel vino e ad esprimere un parere in merito … lo versava in uno specifico bicchiere adatto alla prova, gli faceva osservare il colore e un attimo all’aria perché sprigionasse il suo corpo … usava il naso prima e solo dopo lo gustava … nasceva poi il silenzio e solo gli sguardi tra l’uomo e il commensale in attesa del giudizio … il vino va capito non solamente bevuto perché frutto di un duro lavoro … e quel giudizio era chissà perché sempre positivo, forse un semplice ringraziamento al nobile gesto dell’uomo. Io osservavo quel rito che spesso si ripeteva anche più volte nel corso della giornata, e se ero fortunata forse un sorso ce n’era anche per me che ancora non apprezzavo quella bevanda, ma ne ero curiosa.
Ecco perché nel mio lavoro c’è il mio cuore e il cuore della terra. Ho visto immensi vigneti, al torchio enormi presse e quintali di uva trasformati in litri e litri di vino custoditi in moderni silos di acciaio e pochi ma pregiati vini in botti, ma quando sono in una cantina e assaggio il vino quel sapore soave mi riporta a quegli umili gesti di quell’uomo. Il vino è un’opera d’arte, ha un corpo e un colore, ha un’anima, quella di chi lo produce con passione, il senso del vino è anche cogliere quell’emozione. Il senso del vino è quell’uomo.
Anna Cataldo
(In foto: Complenno. Risignificazione di Giuseppe Antonello Leone 1956)
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