A scuola dal grande “artigenio”
(Il segno lasciato da Giuseppe Antonello Leone)
Buona parte della storia e della cultura lucana che conosco l’ho letta in un libro speciale. Un libro che oggi si è chiuso dopo 99 anni. Negli anni avevo imparato a sfogliare Giuseppe Antonello Leone proprio come un libro e credo che più di chiunque altro mi abbia dato la possibilità di arricchire, impreziosire e consolidare la conoscenza e il legame culturale con la mia terra. E pensare che era campano di origine!
A pochi metri da casa mia, a metà strada tra noi e la casa di Leonardo Sinisgalli, la casa di Montemurro di Giuseppe Antonello Leone e Maria Padula è stata sempre come un tutt’uno di famiglie: mio padre era stato allattato da Maria Padula nel ’44 quando, appena nato, mia nonna Caterina perdette il latte. All’epoca, avere una “mamma di latte” dava davvero origine ad un rapporto praticamente filiale; mio padre li chiamava “papà Giuseppe” e “mamma Maria” ed era naturale per noi figli guardarli come secondi nonni, giacchè non avevamo conosciuto i nonni paterni.
Da quel vicoletto di Montemurro è passata la storia dell’arte e della cultura della Basilicata: Leonardo Sinisgalli, Rocco Scotellaro, Carlo Levi, Manlio Rossi Doria e sentirsi raccontare questi personaggi da un testimone loro pari, per un ragazzo che stava imparando la storia della propria regione, era appunto come sfogliare un libro inedito e autentico.
Ma non era un privilegio solo mio; attingere da GAL era facile per chiunque lo volesse; generoso come era di regalare sapere. Era un antidivo tra i divi e la sua sobria capacità di essere “patrimonio di tutti” in ogni contesto aiutava tutti ad avvicinarsi a lui, soprattutto giovani con la voglia di imparare, a cui ha dedicato tutta la sua vita ed i suoi messaggi. E nei suoi insegnamenti non c’era solo arte ma filosofia innanzitutto; la filosofia di uno “sciamano” (come lo definì Philippe Daverio quando ne curò una bella mostra per la Provincia di Potenza nel 2005) la cui idea è che anche la creatività ha bisogno di punti fermi, di pilastri, di limiti.
Era il 1999 ed ero fisso a Napoli per scrivere la mia tesi di laurea. Lo studio del mio professore di Disegno Industriale era a Monte di Dio, proprio vicino a Via Generale Parisi, dove Leone abitava. Non perdevo occasione per passare a salutarlo in ogni ritaglio di tempo. Una mattina eravamo stati nella sua bottega e, rientrando a casa sua, sull’uscio notai un metro disegnato lungo lo stipite; io incuriosito gli chiesi cosa fosse. Nel frattempo, sentendo rumore sulla scala, la dirimpettaia si affacciò alla porta e lo salutò: “Buongiorno pruf’ssò! Oggi siete in compagnia?”. Lui si sentì in dovere di dirle di più: “Buongiorno, vi presento …mio nipote!” rispose dopo un attimo di incertezza su come definirmi; e poi: “Gli sto insegnando che l’unica cosa nella vita di cui non dimenticarsi mai è il senso della misura!”. E detto da chi tendeva a “risignificare” il mondo era più che mai un avvertimento, non solo un semplice insegnamento!
Quell’insegnare che è stato sempre al centro della sua vita e che lo ha fatto riconoscere come “maestro” autentico da generazioni di artisti e non solo, per quel senso della “Scuola” che per Leone è stato un pilastro fondamentale. Molti artisti contemporanei lucani oggi gli sono riconoscenti innanzitutto come fondatore del primo Istituto Statale d’Arte, di cui Leone fu il fautore nel 1966 e lo guidò fino al 1971, affiancato dalla moglie, Maria Padula, tra i docenti. Una stagione che si è consolidata nella storia dell’arte lucana proprio come scuola d’arte in senso più generale, formando una generazione che ha contribuito all’identità artistica della nostra piccola regione. E Leone ne fu il perno: intellettuale colto, maestro di vita e di saperi, mantenendo sempre la sua caratteristica di artigiano dell’arte e della creatività.
Decenni d‘arte in Basilicata e oltre, fino al 2003, quando in un colpo solo è riuscito a mettere insieme a Montemurro tutte le sue geniali vocazioni: la scuola, l’arte e l’artigianato. La fondazione della Scuola del Graffito Polistrato di Montemurro, un suo sogno fin dal 1969 quando sperimentò per primo la tecnica del graffio su multistrato di malte per la creazione di opere da installare all’aperto. Quella prima esperienza, Leone volle dedicarla proprio al suo amico Leonardo Sinisgalli, con un graffito dal titolo “Ovo Mathematicus” che fu la prima di circa 60 opere oggi realizzate in paese da artisti provenienti dalla Basilicata, dall’Italia e dal mondo per apprendere la sua tecnica e diffonderla.
Chissà se proprio a Sinisgalli, Leone abbia voluto dimostrare che anziché “mortificare il suo genio” come l’amico Leonardo di lui disse quasi a consigliargli di essere meno poliedrico e sperimentatore, la società contemporanea imponeva invece di “essere avanti”; lui lo è stato per 99 anni, oggi gli viene finalmente riconosciuto ed io sono convinto che anche Sinisgalli, gli avrebbe detto “Beppe, hai fatto bene a non starmi a sentire!”. La sua identità artistica, in realtà, altro non era che il suo caos apparente, quell’essere uomo di bottega e uomo di visione prospettica.
Quel gruppo che lo ha affiancato sin dal 2003 comprese immediatamente il valore dell’idea di fondare la Scuola; quel gruppo capì che la Scuola avrebbe dato al nome e al genio di Giuseppe Antonello Leone non solo il giusto riconoscimento “eterno” ma una reale continuità della sua opera, dei suoi esperimenti, della sua visione.
Per me quel libro da sfogliare è stato sempre aperto, una presenza fissa che oggi passa dal comodino alla libreria dell’anima. Ma anche se oggi si è chiuso, so che è uno di quei libri che ho avuto la fortuna di leggere e di memorizzare sapendo che, pur se riposto è sempre lì, a disposizione, e non smetterà mai di aprirsi quando vorrò.
di Gianni Lacorazza
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